Gli uomini contemporanei,
volontariamente o astutatamente indotti, si stanno riducendo a copie di copie
di copie di copie e quando si continua a fotocopiare una pagina, dopo un certo
numero di fotocopiature, questa diventa irriconoscibile e illeggibile. Sorge,
così, un tipo umano incomprensibile che diventa sempre più piccolo e maligno,
sempre più micragnoso, che non sa nulla di nulla e ritiene di sapere tutto di
tutto solo perché vive in una finzione ordinata, avvolto da pannicelli caldi,
ma con gli occhi cattivi e vuoti di vita ed il viso consunto da una hybris cieca e abbandonata a se stessa,
un uomo schiacciato dal peso dell’esistere e da cui non c’è da aspettarsi più
nulla di buono. Credendo di sapere già tutto di tutto, quest’individuo diventa
incapace di curarsi di alcunché, o di uno studio sincero e autentico, e ricorre
a certificazioni e pacchetti d’informazioni preformattati che lo rassicurano
nelle sue apparenti e inferme certezze. Quest’uomo smarrito nei propri deliri
di onnipotenza farà di tutto affinché tutto vada perso. La cosa strabiliante è
che, già in epoche arcaiche, eravamo stati avvisati dei pericoli che
quest’impostazione sociale avrebbe portato ma, nonostante gli ammonimenti dei
savi, si è continuato ad andare, imperterriti, per la strada contraria.
L’opinione, poi, che esista davvero qualcosa come il “successo”, nel limitato
ardire dell’esistenza umana, e che questo sia anche “misurabile”, materialmente
o quantitativamente, è una vecchia ubbia degli stolti della quale, da sempre,
hanno riso coloro che pensano. Quest’arroganza diffusa cui si assiste oggi
quasi ovunque e l’indifferenza e lo scherno verso la conoscenza non sono
atteggiamenti nuovi – nihil sub sole
novum, ammoniva l’Ecclesiaste già
ai suoi tempi. L’enorme differenza tra noi e le epoche passate è che la nostra
follia ci ha condotti al possesso di armi di annientamento tali da essere in
grado di evocare spettri così fatali da non lasciare più nulla di vivente sul
pianeta. Questa è un’epoca davvero terribilis
alla quale anche provare a parlare arreca dolore e sgomento.
(Sergio Caldarella, Appunto
# 14. © 2016)